Una conferenza all’insegna dell’arte e del design quella che ha visto protagonista il Prof. Francesco Gallo Mazzeo, docente di linguistica applicata ai nuovi linguaggi inventivi delle arti visive, alla Galleria nazionale d’Armenia a Yerevan.
La lectio magistralis ha incantato il pubblico di pittori, scultori, designer e architetti tra cui l’artista Vighen Avetis, spaziando da riflessioni sull’etica a quelle sull’estetica e sul sublime.
Per comprendere nel profondo la valenza della lezione basterà leggere questa interessante riflessione del Professore:
Armenia. Si parla di noi
Francesco Gallo Mazzeo
“Se pareba boves, alba pratalia araba et albo versorio teneba
et negro semen seminaba”. Si tratta di un indovinello, di un
ignoto copista, tra VIII e IX secolo, conservato nella più antica
biblioteca del mondo (ancora esistente) la Capitolare di Verona
che ha 1500 anni di accumuli e stratificazioni di una preziosità
unica e sembra una giovane spensierata. Il trascrittore Ursicinus,
del 517. Soluzione moderna di Giovanni De Bartolomeis: i buoi
sono le due dita della mano, i campi bianchi sono le pagine
del libro, l’aratro bianco è la penna d’oca e il seme nero è
l’inchiostro. Siamo a 800 anni prima dalla Divina Commedia
di Dante. Evidente, il legame tra agricoltura (Eva, Caino) e la
cultura che viene dal colere, coltivare, in un legame inscindibile.
Entrambe rispondono, come sorelle, ai bisogni fondamentali
dell’umanità: vivere e filosofare. Primum vivere, deinde filosofare,
è una pseudo cronologia, perchè in effetti si tratta di una gemellarità
da siamesi. Fu Virgilio, nelle Georgiche e nelle Bucoliche, a parlare
della sistematicità, della riproduzione della vita vegetale e biologica,
esaltandole nella sua poesia elegiaca, mentre fu Cicerone a parlare
di cultura animi, coltivazione dello spirito, come un terreno, per dare
frutti eccelsi, continui ed abbondanti; l’individuo e la collettività, uomini
e donne, devono curare la propria conoscenza, se vogliono esprimere
meglio la propria personalità. Questa premessa mi è venuta automatica
per entrare nel Paese delle Cicogne, che è l’Armenia, nostra sorella, di
cui accogliamo, dal 1700, nella laguna di Venezia, a San Lazzaro,
il tesoro culturale più prezioso, costituito da 170mila volumi, 4 mila
manoscritti e manufatti autoctoni, ma anche di origine araba, indiana e
persino egizia e un testo in pali, scritto col sistema bustrofedico (scrittura,
le cui linee, vanno, alternativamente, da sinistra a destra e da destra a
sinistra, come si volgono i buoi, nei lavori dell’aratura). Abbiamo,
San Gregorio Armeno, sepolto a Napoli, nell’omonimo quartiere del centro
e di cui ho visitato la prigione, in cui venne “sepolto”, per più di dieci anni,
di fronte al Monte Ararat, che si erge misterioso e privo d’acque; là dove
Noè ebbe ad arenarsi dopo il diluvio e tutto intorno, stanno risorgendo
tanti vigneti, che danno lo stesso vino che il grande padre bevve,
ubriacandosi e facendo spettacolo di sé; ma ora sono macchinari fatti
a Treviso, che pestano l’uva e fanno nettare. In Armenia si coglie il segno
primordiale, della romanità imperiale, della cristianità originaria e poi
è come se ci fosse un grande vuoto, di un popolo che non è più stato
più padrone del proprio destino, nell’attraversare il tempo, i secoli,
bizantini, ottomani e gli anni sovietici, hanno schiacciato tutto; niente
umanesimo, rinascimento, barocco, in nomine et in figura e tutto è come
se ci si salutasse dall’altra parte di una vallata, senza un ponte in mezzo,
sentendo voci lontane, gesti, riti, di una grande umanità, che non si è
addormentata, non ha chiuso gli occhi ed oggi nella ritrovata luce di albe,
splendidi meriggi, sublimi serate, intreccia le corde spezzate, in un proustiano
tempo ritrovato. La stagione dell’oggi, con la peculiarità di un paese
inquieto, che vive tra incerti confini, un grande desiderio di recuperare
l’identità, la memoria, che è antica, complessa, affascinante, ma
bisognosa di uscire dal mito e dalla tragedia, per entrare nella storia
dell’oggi, cioè in quella narrazione che non ha paura di contraddirsi,
se c’è da contraddirsi e scriversi e riscriversi, continuamente, per essere
vita morale, intellettuale. Il centro moderno di Yerevan, la city, è tutta
un pullulare di vita e di gente, in mezzo ad una proposta stilistica di design,
moda, arte, tecnologia, che parla della terra di Benvenuto Cellini prima e di
Enzo Ferrari dopo, di Fontana Arte e Dolce&Gabbana, attenta e curiosa
del continuum vorticoso e cangiante, senza scadere nel kitsch, che pure
potrebbe incombente, in una società che deve correre, tra un tempo
antichissimo, un tempo senza tempo e quello tanto veloce dell’oggi,
sempre in bilico tra i richiami folkloristici del tradizionalismo e i colpi di
accelerazione della tradizione, che vuol dire lungimiranza ed eccellenza.
Ma non è solo Yerevan a galoppare sulla giusta pista; è tutto il paese dei
vecchi e dei giovani. Ho parlato d’arte, di design, di estetica, facendo anche
teatro nel fare interpretare il movimento di Venere intorno al sole; perché
il sapere sia gioioso, nel detto ciceroniano di movere, docere, delectare,
in una Galleria Nazionale d’Arte Moderna, che conserva le memorie e
promuove l’attualità, d’arte e cultura, grande motore della vita biografica.
Ho visto pittori, scultori,designer, architetti, tutti compresi in una grande
voglia di fare, di apprendere, di mostrare, seguendo linee internazionali,
ma fatte proprie, adattate, ma senza avere paura di osare, come si
conviene ai “cavalli di razza”, quindi… osare…osare…osare. Ho ricordato
i miei precedenti viaggi in Armenia; ne ho parlato in chiave di creatività
inventiva, di scuola, di futuro. Sempre teoria. Sempre prassi.
A lui vanno i nostri complimenti più sinceri e la nostra gratitudine per aver portato alto il nome dell’Istituto Pantheon in un ambiente così emblematico come la Galleria nazionale d’Armenia.